Il dolce non è così dolce senza l’amaro. Rieducare il gusto per prevenire diabete e obesità

Il dolce non è così dolce senza l’amaro. Rieducare il gusto per prevenire diabete e obesità

L’intervento della prof.ssa Angela Bassoli, Chimica organica e basi molecolari del gusto, Università degli Studi di Milano al congresso ‘Panorama Diabete’ della SID, Società Italiana di Diabetologia

Spostare il gusto dai sapori dolci verso i sapori amari per combattere la ‘tirannia’ del dolce

“Rieducare il nostro gusto ad apprezzare gli alimenti dal gusto amaro, per combattere la doppia pandemia di obesità e diabete. È la proposta innovativa e un po’ provocatoria della prof.ssa Bassoli, esperta in basi molecolari del gusto, fatta al congresso ‘Panorama Diabete’ della SID, Società Italiana di Diabetologia (Riccione, 27-30 novembre).

I gusti sono mediati da recettori specifici

Variazioni geniche recettori gustoTra i vari sensi, il gusto è quello che ci permette di riconoscere e selezionare il cibo e di evitare l’ingestione di sostanze tossiche. Si sviluppa nel grembo materno e continua per tutta la vita; alcuni studi hanno documentato che le esperienze gustative del neonato durante lo svezzamento possono influenzare le sue scelte alimentari da adulto.
Il gusto viene influenzato dalle esperienze personali, dall’ambiente culturale dove si nasce e cresce, dallo stile di vita ma secondo gli studi più recenti anche da una componente genetica.
Il gusto influenza in modo determinante l’appetibilità dei cibi, condizionando le scelte e le abitudini alimentari di ciascuno di noi. Differenze nella percezione gustativa mostrano importanti implicazioni a lungo termine per la salute, soprattutto per malattie metaboliche come l’obesità e il diabete.

La percezione dei diversi gusti avviene grazie a recettori presenti sulla superficie di cellule epiteliali specializzate (dette TRCs o taste receptor cells) che si trovano all’interno dei bottoni gustativi, localizzati soprattutto sulla lingua ma non solo. Facciamo l’esempio del peperoncino che contiene come principio attivo la capsaicina. Quando noi la mettiamo in bocca – la capsaicina per agire si va a legare al suo recettore specifico (un canale ionico della famiglia dei TRP, Transient Receptor Potential). Questo legame genera il segnale gustativo, quello che poi riconosciamo per esempio nel caso del peperoncino come un aumento della temperatura del cavo orale (“ho la bocca in fiamme!”), non per niente i cibi piccanti – come appunto il peperoncino – vengono chiamati “hot foods”. In alcuni casi particolarmente sensibili, possono anche generare sensazione di fastidio e addirittura di dolore, se assunti in concentrazioni molto elevate.

Il linguaggio del gusto

Il linguaggio del gusto ovvero l’insieme dei segnali che gli alimenti ci mandano attraverso il gusto è molto importante. Questi segnali non sono soltanto legati a un fattore puramente edonico cioè in stretta relazione con il piacere (mi piace, non mi piace) ma sono stati modellati per farci interagire con l’ambiente quindi essenzialmente per farci trovare i nutrienti importanti e poi per darci dei segnali, dei segnali che vengono scambiati in tutto l’ecosistema, dai vegetali agli insetti, dagli animali superiori all’uomo.

Oggi abbiamo un quadro abbastanza definito di questo sistema e delle famiglie di recettori responsabili del gusto dolce, salato, acido, amaro, grasso e umami. Quest’ultimo consente di riconoscere soprattutto gli alimenti ricchi di proteine come carni e formaggi stagionati. Esiste poi una famiglia importante delle cosiddette “sensazioni strane” (somatosensoriali), mediate dai canali ionici TRP associate a quelle sensazioni tipo piccante, pungente, fomicolio, freddo, caldo che di solito si trovano nelle spezie, nelle piante aromatiche e in moltissimi vegetali.

Per usare una semplificazione, possiamo dire che esistono tre tipi principali di segnali mediati da recettori:

  1. Individuazione, accettazione e preferenza dei nutrienti essenziali (per es. gusto dolce, la nostra principale fonte energetica).
  2. Rifiuto/avviso di composti e alimenti potenzialmente tossici o dannosi che ci proteggono dall’ingestione di sostanze pericolose (per esempio alcuni alcaloidi fortemente tossici sono prodotti dalle piante proprio per darci un segnale di divieto; le pianti li producono proprio per non farsi mangiare. È in genere associato ad alcune sostanze amare o acide (per esempio cibi fermentati in modo improprio o andati a male), o anche al sale ad alte concentrazioni.
  3. Individuazione e modulazione di sostanze “farmacologicamente attive”.
    È forse il segnale più importante anche se di solito non siamo in grado di leggerlo al meglio. Non è di per sé né un si né un no ma è un segnale di attenzione. Ci vuol dire: “qui c’è qualcosa che è potenzialmente attivo sul tuo organismo” e questo qualcosa può fare bene o può fare male, dipende da molti fattori: dose, età, stato di salute, genere, etc. Il tipico esempio è quello della caffeina: fa bene o fa male? La caffeina, usata spesso come standard per l’amaro, di per sé non è né buona né cattiva, dipende: la tazzina che ci beviamo al mattino nessuno direbbe che è tossica ma per un bambino piccolo o un anziano cardiopatico anche quella può essere dannosa così come un eccesso di caffè al giorno. Questo segnale è spesso associato a sostanze amare o a sostanze somatosensoriali.

Amaro, il sapore negletto

Il problema dei gusti negletti“Alla base della pandemia di obesità e diabete c’è un’errata alimentazione, quella cosiddetta ‘occidentale’, caratterizzata da una dieta completamente sbilanciata soprattutto verso tre gusti: il dolce, il salato (chiamati non a caso i due ‘big killer bianchi’) e il grasso. Ma l’esperienza sotto gli occhi di tutti insegna che non basta raccomandare di seguire una dieta salutare, come quella mediterranea. Bisogna agire più in profondità, alla base, anche rieducando il nostro gusto ‘sbilanciato’ soprattutto verso il gusto dolce”.

Da considerare che questo sbilanciamento della dieta porta anche a dei problemi a livello ambientale: basti pensare alla perdita di biodiversità che è conseguita alla sempre maggiore selezione da parte degli agricoltori di ortaggi meno amari per rispondere alle esigenze del mercato che richiede alimenti più dolci, perdendo numerose varietà utili che un tempo erano disponibili. Dovremmo recuperare i cosiddetti gusti negletti, in particolare l’amaro ma anche l’acido e lo speziato. Perché? Per tantissimi motivi, primo fra tutti perché in queste tre categorie ci sono guarda caso la maggior parte delle sostanze che ci fanno bene. Tra le sostanze più o meno amare benefiche, per esempio ci sono: i polifenoli, i glucosinolati, i terpeni, i flavonoidi, etc. Negli alimenti acidi, ci sono tutti gli alimenti fermentati, tra cui moltissimi probiotici e prebiotici, pensate allo yogurt, al kimchi (piatto della cucina coreana), alle paste acide, all’injera (piatto base della cucina etiope ed eritrea), le kombucha (bevande leggermente frizzanti, ottenute dalla fermentazione del tè o di altre piante). Anche questi alimenti sono stati progressivamente abbandonati o resi meno acidi (pensiamo solo al sapore dello yogurt di una volta molto più acido di quello che si trova adesso sul mercato). Infine, ci sono le spezie: molte sostanze con sapori forti presenti nelle spezie hanno delle proprietà antinfiammatorie e antidolorifiche e antimicrobiche ormai estremamente riconosciute. Tutte queste categorie sono quelle che dovremmo recuperare e in particolare l’amaro.

Perché amiamo così tanto il gusto dolce?

Dal punto di vista evolutivo, quando l’uomo doveva procacciarsi con difficoltà il cibo, la capacità di percepire il gusto dolce si è sviluppata in modo molto potente per riconoscere gli zuccheri, principale fonte d’energia del corpo che in natura sono comunque rari (la frutta matura solo in certi periodi, il miele e poche altre fonti). In parole semplici, il messaggio è: “… quando trovi qualcosa di dolce, mangialo e mangialo a più non posso perché non sai quando lo ritroverai la prossima volta”. Oggi, il gusto ha in gran parte perso questa funzione e non risulta più legato così strettamente a esigenze di sopravvivenza, considerata l’enorme disponibilità di cibo. Ciononostante, il segnale di selezione positiva del gusto dolce rimane uno dei più importanti fattori nel determinare la selezione e il grado di accettazione di un alimento.

Come rieducare il nostro palato al gusto amaro? Scienza e cultura!

“La mia ricetta al riguardo – afferma la prof.ssa Bassoli, – è ‘scienza e cultura’. Noi avvertiamo sapori diversi grazie a una serie di recettori del gusto specializzati che dovrebbero portarci a cercare alimenti diversi, sulla base delle necessità del nostro organismo in un particolare momento”. In natura, non esistono animali selvatici obesi, perché mangiano solo quello che serve loro in quel momento, nella giusta quantità. “I nostri recettori del gusto – prosegue la Bassoli – dovrebbero appunto spingerci a scegliere quello che ci serve. Ma oggi noi non li ‘ascoltiamo’ più, perché non abbiamo bisogno di procacciarci il cibo in natura; ci basta entrare al supermercato”. E uno dei segnali del gusto più ‘potente’ purtroppo è quello del dolce, come abbiamo visto, perché gli zuccheri semplici sono una delle principali fonti di energia, che è d’importanza vitale.

Bitter is better: le 25 sfumature di amaro

“La natura – commenta la prof.ssa Bassoli – non poteva certo prevedere che un giorno avremmo avuto a disposizione tutte queste fonti di energia, ‘facili’ e a basso costo”. E per uscire dunque da questa ‘tirannia’ del dolce e riequilibrare le nostre preferenze alimentari, l’unica soluzione è reimparare ad ascoltare i nostri recettori del gusto. “Ma per fare questo – spiega Bassoli – bisogna ‘allenarli’, perché la nostra alimentazione, esponendoci solo a certi tipi di sapori, ci ha fatto accantonare gli altri. Oggi, noi abbiamo in dotazione ben 25 diversi recettori (T2R), caratterizzati da una certa variabilità genetica, per apprezzare le tante sfumature del gusto ‘amaro’ (contro appena un unico recettore per il gusto ‘dolce’ in grado di riconoscere gli zuccheri ma anche i dolcificanti), ma non li usiamo da troppo tempo, sono come ‘atrofizzati’ e vanno dunque riallenati. Come? Iniziando a mangiare degli alimenti un po’ più amari (vegetali, spezie, caffè senza zucchero) rispetto a quello che facciamo abitualmente. Se gradualmente mi riespongo a questi sapori, i miei recettori piano piano si adattano”.

Riadattare il gusto a tavola, ci porta a due sostanziali vantaggi

“Il primo – spiega la prof.ssa Bassoli – è un vantaggio diretto: ricomincio a mangiare degli alimenti che mi fanno bene, per esempio le verdure che contengono più flavonoidi, più polifenoli, antiossidanti protettivi nei confronti dei tumori e delle malattie cardio-metaboliche. Ma c’è anche un vantaggio indiretto. “Se mi abituo ad un gusto un po’ più amaro e meno dolce – spiega la professoressa – in parallelo mi abituerò a non aggiungere zucchero, o ad aggiungerne meno, ad alimenti che non ne hanno bisogno”. L’industria alimentare – per venire incontro alle richieste del mercato – progetta il sapore degli alimenti per renderli più ‘attraenti’, spesso togliendo l’amaro o l’acido. “Una volta – commenta Angela Bassoli – le nostre nonne mangiavano tante erbe di campo amarissime; oggi le abbiamo lasciate da parte e consumiamo invece verdure ottenute con incroci, con selezione genetica, che risultano sempre meno amare. L’industria modifica il sapore dei cibi anche attraverso gli additivi, ad esempio con i dolcificanti che di certo non hanno fatto diminuire né l’obesità, né il diabete. Questo perché sono il messaggio che danno è un fake: i dolcificanti non contengono lo zucchero, ma il nostro recettore si abitua al sapore dolce e la nostra preferenza per il dolce rimane”.

L’amaro è una gradazione, è la musica e non… la nota

Altri esempi sono alcuni yogurt industriali, ai quali vengono aggiunti grassi, lecitina, zuccheri e frutta per renderli meno acidi e alcuni succhi di frutta, addizionati di sostanze in grado di togliere l’amaro. Oggi ci sono anche filoni di ricerca per trovare degli additivi (“taste modifiers”) in grado di ‘spegnere’ recettori specifici, come ad esempio quelli del gusto amaro. “Ma se tutto questo può andar bene per l’industria farmaceutica (le medicine sono quasi tutte ‘amare’) – sottolinea Bassoli – nel caso di quella alimentare, può avere conseguenze deleterie. Sarebbe utile, quindi, educare e ribilanciare i gusti delle persone, rendendole così sempre più sceglitori e meno consumatori. Certo ci sono anche sostanze amare nocive in natura, ma nell’insieme quelle effettivamente tossiche sono appena il 15-20%; tutte le altre, oltre a non essere tossiche, spesso fanno bene. Insomma, l’amaro è una gradazione, è la musica e non la nota, un discorso e non una singola parola.

Ma cosa ci facciamo con questi 25 recettori per l’amaro?

“Il ruolo dei singoli recettori nella percezione e la loro “specializzazione” non sono ad oggi ancora del tutto chiari, anche se vi sono alcuni studi a riguardo. – commenta Angela Bassoli – Alcuni recettori gustativi potrebbero essere più specializzati nel riconoscere le sostanze tossiche, altri le sostanze benefiche. Stiamo cercando di capire meglio come funzionano. Queste ricerche hanno riguardato in passato prevalentemente l’industria farmaceutica, mentre il mondo della scienza alimentare ha cominciato da poco a occuparsene. Di recente, ad esempio, una start up tedesca ha cominciato a produrre degli additivi ‘amaricanti’ (estratti di piante amare) per alimenti. Ma – a mio avviso – non è quella la strada da seguire. Ritengo che un buon approccio sia quello di modificare la nostra percezione mentale dei sapori, per esempio aprendoci un po’ più al resto del mondo. I nostri ragazzi oggi sono esposti ai cibi etnici, che hanno dei profili molto più amari e speziati di quelli della dieta occidentale. Io spero che questa possa essere una molla per recuperare la biodiversità del gusto. Se cominciamo ad aprirci a queste esperienze, non risulta così incomprensibile riprendere a mangiare cicoria, broccoli, radici. Di certo, dunque, abbiamo bisogno di un cambiamento culturale – conclude l’esperta – Se il gusto ‘amaro’ è dato dai polifenoli, allora bisogna spiegare al consumatore che quell’amaro gli fa bene e non va escluso dalla dieta. Più che aggiungere amaricanti negli alimenti, dunque, dovremmo far leva sull’educazione alimentare, a cominciare dai bambini delle scuole”.

“Certamente – commenta il professor Agostino Consoli, presidente della Società Italiana di Diabetologia – rieducare ad una sana alimentazione, passa anche per una modificazione del gusto. E oggi, anche alcuni trend di cucina d’avanguardia tendono a rivalorizzare il rabarbaro, lo zenzero, le verdure di campo, la cicoria, sapori insomma amari che risultano però assolutamente piacevoli ad un gusto ‘educato’ verso di essi. Occorre imparare a rivalutare il buono che c’è anche nell’amaro, per riportare l’alimentazione verso una base di maggior salubrità”.

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