Il piede di Charcot è una complicanza diabetica poco conosciuta e di cui si parla poco che altera i tessuti molli, le articolazioni e le ossa del piede e della caviglia. La malattia è innescata nei soggetti predisposti da un processo infiammatorio incontrollato che porta a lisi del tessuto osseo, progressive microfratture e malposizionamento articolare dovuto a sublussazioni e dislocazioni.
Se la complicanza viene riconosciuta precocemente e trattata in modo adeguato e tempestivo (immobilizzazione del piede colpito), durante le prime fasi, ci sono buone probabilità di fermarne l’evoluzione verso un quadro molto più grave e invalidante. Una diagnosi precoce può fare davvero la differenza per la salute futura del piede. In caso contrario, si sviluppano progressive e dolorose deformazioni dell’arco plantare dei piedi, tali da procurare ulcere difficilmente risolvibili, fino – nei casi più gravi – alla necessaria amputazione dell’arto colpito, soprattutto quando è presente un’infezione ossea (osteomielite) o il quadro è ulteriormente complicato da un’ostruzione a un’arteria dell’arto inferiore (arteriopatia ostruttiva) che impedisce un regolare flusso del sangue.
Che cos’è il piede di Charcot?
Il piede di Charcot si caratterizza per un’alterazione dei tessuti molli, delle ossa e delle articolazioni del piede: inizialmente si formano piccole fratture che nel tempo diventano frammentazioni ossee con perdita dei rapporti articolari normali fino a rendere impossibile la distinzione delle ossa tra loro. Questo quadro clinico che visivamente si presenta con una grave deformità del piede è la conseguenza di una diagnosi mancata o trascurata all’esordio della malattia (fase acuta), quando la presenza di dolore, edema e arrossamento del piede possono venire scambiati per una distorsione, una flebite o quant’altro e trattate in modo del tutto inefficace.
“Se l’intervento iniziale è tempestivo, nelle prime fasi, il processo di degenerazione ossea ha ottime probabilità di essere fermato, impedendo – quindi – che il piede si deformi”.
Qual è l’ incidenza/prevalenza del Piede di Charcot?
Diciamo subito che per fortuna il piede di Charcot è una complicanza diabetica rara. I dati ad oggi disponibili sono scarsi e spesso discordanti tra loro. Secondo le fonti più recenti la prevalenza si aggira tra lo 0.1 e il 7.5% nella popolazione con diabete in generale ma colpisce fino al 35% dei casi con neuropatia periferica. Sicuramente si tratta di un dato in difetto considerati il ritardi nella diagnosi e le diagnosi errate. La malattia può essere bilaterale, quindi interessare entrambi i piedi nel 9-75% dei casi, secondo le diverse fonti consultate. Non sembrano esserci differenze tra i due sessi.
Chi è più a rischio di sviluppare il Piede di Charcot?
Tra i pazienti più a rischio, le persone con diabete di tipo 2 da almeno 10-15 anni, mal controllato, con una grave neuropatia sensitivo-motoria che nel tempo ha provocato un’insensibilità pressoché totale del o dei piedi. Spesso il quadro è associato ad altre complicanze diabetiche come nefropatia diabetica e/o retinopatia diabetica.
L’eccesso di peso tende a peggiorare il quadro per il maggior carico esercitato sulla pianta dei piedi. Il piede di Charcot può manifestarsi anche in soggetti con diabete di tipo 1 di lunga durata, mal controllato e particolarmente predisposti alla neuropatia diabetica.
Quali sono le cause del Piede di Charcot?
Non c’è una causa singola per lo sviluppo del Piede di Charcot. Il diabete mellito è la causa più comune nei Paesi Occidentali. Tra gli altri fattori che predispongono al suo sviluppo, vi sono:
- interazione complessa e mista di polineuropatia, trauma ripetuto, ipervascolarizzazione, alterazione biologico-molecolare, anomalie metaboliche dell’osso;
- abuso di alcolici a lungo termine, oltre ad altre neurotossine, per esempio nicotina, metotrexate;
- insensibilità congenita al dolore, deficit di sensazione protettiva;
- artrite reumatoide;
- neuropatia associata ad HIV;
- altre.
Quali sono i meccanismi coinvolti nel suo sviluppo?
Sebbene possano essere coinvolti diversi fattori, secondo la teoria più attuale e accreditata, la causa principale sarebbe riconducibile a un’alterata produzione locale di citochine (mediatori dell’ infiammazione); questo provocherebbe uno squilibrio tra le cellule che “costruiscono” l’osso (chiamate osteoblasti) e le cellule che degradano l’osso (osteoclasti), favorendo queste ultime e quindi la lisi del tessuto osseo (osteolisi). Il tessuto osseo, a differenza di quanto si potrebbe pensare considerata la sua durezza e la sua resistenza, è un tessuto dinamico, in continuo turn-over tra costruzione e demolizione. Questo metabolismo osseo viene del tutto sconvolto nella persona che soffre di Piede di Charcot.
È vero che la fase acuta di questa complicanza viene spesso misconosciuta? Come mai?
Purtroppo è vero. Troppo spesso giungono a noi pazienti che da mesi peregrinano da un medico all’altro. Bisogna anche dire che la diagnosi del piede di Charcot non è facile e talvolta rappresenta una vera sfida anche per il clinico più esperto.
Spesso i sintomi e i segni che mostra il paziente, i parametri di laboratorio e un primo quadro radiografico negativo effettuato nei primi giorni dall’insorgenza del quadro acuto, indirizzano erroneamente verso una diagnosi di patologia delle articolazioni con conseguente trattamento con antinfiammatori, che si dimostra nel tempo inefficace. Un successivo controllo radiografico [o tramite Tomografia computerizzata (TAC) o scansioni con imaging a risonanza magnetica (RMN)] evidenzierà la presenza di piccole fratture e/o veri e propri spostamenti (dislocazioni) delle ossa e delle articolazioni che potrebbero evolvere e infettarsi. Se il paziente non viene trattato adeguatamente, dopo settimane o mesi dal primo sintomo, potranno insorgere delle ulcere di difficile gestione in corrispondenza delle fratture e delle deformità osteoarticolari a causa della continua pressione.
Ecco perché, per evitare tutto questo, è importante rivolgersi da subito a un Centro specialistico per la cura del piede diabetico.
La diagnosi precoce è fondamentale per non compromettere la salute futura del piede o dei piedi, in caso la presenza sia bilaterale.
Una diagnosi tempestiva agevola il trattamento e riduce la disabilità a lungo termine.
Quali sono i sintomi “spia” a cui fare attenzione?
L’inizio è subdolo. Il primo sintomo che il paziente lamenta è in genere un lieve dolore al piede, che si associa a segni di infiammazione, per esempio piede gonfio (edema) in alcuni punti, cute tumefatta e arrossata. Il dolore non è necessariamente costante e quando è presente non è mai proporzionale all’infiammazione in corso.
Il paziente non ha febbre ma il piede colpito è più caldo rispetto al piede non colpito. Facendo un normale esame del sangue, si può evidenziare un semplice aumento dei parametri generici di infiammazione (flogosi) come VES (velocità di eritrosedimentazione) o proteina C-reattiva (PCR o CRP, dall’inglese C-reactive Protein). Come detto in questa prima fase acuta, l’esame radiografico (ma anche la TAC), effettuato nei primi giorni del quadro acuto, può risultare negativo allontanando il clinico non specialista da una diagnosi precoce e precisa. Già da questi primi sintomi è bene rivolgersi a un Centro specialistico per la cura del Piede diabetico.
L’infiammazione (calore, gonfiore, eritema) gioca un ruolo chiave. Se è presente infiammazione, il piede di Charcot è attivo. Occorre subito farsi visitare in un centro per la cura del Piede diabetico.
Come evolve il piede di Charcot?
L’evoluzione dalla fase acuta alla fase cronica del piede di Charcot, dipende strettamente dal trattamento che viene effettuato dopo la diagnosi. Più precoce è la diagnosi, più precoce sarà il trattamento adeguato e maggiore sarà la probabilità di poter conservare l’integrità anatomo-funzionale del piede o dei piedi se il danno è bilaterale.
La fase cronica è caratterizzata dalla progressiva riduzione fino anche alla completa scomparsa dell’infiammazione locale e dalla crescente presenza di deformità osteoarticolari più o meno gravi e definite che mettono a rischio la stabilità articolare della persona colpita. In alcuni casi, la normale architettura del piede viene conservata, soprattutto quando la diagnosi e il trattamento conservativo sono adeguati e precoci; in altri casi possono residuare deformità anche molto gravi. Quando il danno colpisce l’avampiede, la stabilità articolare viene più facilmente mantenuta mentre quando il processo interessa il mesopiede (parte intermedia del piede), l’articolazione della caviglia e il calcagno, si osserva una grave instabilità articolare.
Qual è la terapia più indicata della fase acuta?
L’obiettivo principale della terapia del piede di Charcot in fase acuta è quello ovviamente di evitare l’evoluzione distruttiva e deformante verso la fase cronica. È essenziale agire precocemente se si vuole interrompere, o perlomeno rallentare il più possibile, il processo di degenerazione ossea che conduce alla deformazione dell’arto.
La terapia consiste nell’immobilizzare l’arto con un apparecchio di scarico, in genere uno stivaletto rigido di gesso o di fibra di vetro: in questa fase è tassativo che il piede non appoggi mai per terra in quanto il carico contribuirebbe all’evolversi del danno osseo. Da evitare anche stampelle o tutori. L’apparecchio in questione va tenuto per molti mesi, in base alla localizzazione interessata, alle necessità individuali e come stabilito dal proprio specialista.
Allo stivaletto, si associa di norma un trattamento farmacologico con bifosfonati, una classe di farmaci che agisce inibendo il riassorbimento osseo.
Quando il quadro clinico sarà stabilizzato, andrà valutato dallo specialista se sia sufficiente un’ortesi (tutore) con scarpa e plantare personalizzati su misura oppure sia necessario procedere a un intervento chirurgico di correzione.
Deve essere posta attenzione anche al piede controlaterale?
Si, durante tutto il periodo di trattamento per scongiurare il rischio di insorgenza di un altro quadro acuto di Charcot, considerato il carico a cui il piede integro viene sottoposto, durante la deambulazione. Al momento delle visite viene effettuato un controllo scrupoloso di entrambi i piedi. Quando il paziente deve deambulare si consiglia di usare particolari calzature protettive personalizzate che consentano di riequilibrare le pressioni plantari.
Che cosa si può fare quando il piede di Charcot è ulcerato?
Le ulcere di un piede di Charcot avanzato sono estese e profonde e possono avere protusioni ossee sottostanti che aumentano la pressione e il carico e quindi alimentano le lesioni ulcerative, rendendone difficile la guarigione. Possono recidivare spesso anche se il paziente indossa regolarmente scarpe protettive con idonei plantari personalizzati. In questi casi, particolarmente gravi, l’unica soluzione è la rimozione chirurgica della protusione ossea. Le modalità di intervento sono legate al tipo di deformità. Non sempre gli interventi chirurgici per il trattamento del piede di Charcot sono totalmente risolutivi. Il periodo post-operatorio richiede un attento monitoraggio e una terapia adeguata che comprende la confezione di scarpe su misura che contengano piede e caviglia.
Quando c’è rischio di amputazione?
Il rischio di amputazione dell’arto dipende dalla gravità della patologia, dalla sede primitiva della lesione plantare e dalla presenza o meno di infezione ossea (osteomielite); quando la lesione è all’avampiede, il rischio di amputazione è piuttosto basso, aumenta invece se la parte interessata è la parte intermedia del piede (mesopiede) e cresce ulteriormente quando sono coinvolti retropiede, calcagno, astragalo e ossa della caviglia.
In conclusione, il piede di Charcot è una rara ma molto seria complicanza diabetica che colpisce il piede e la caviglia di pazienti con neuropatia diabetica avanzata. Ha un esordio subdolo con un processo infiammatorio che può mimare molte altre situazioni più comuni in un piede di un paziente con diabete. La diagnosi precoce e il trattamento adeguato sono fondamentali per poter salvaguardare l’architettura del piede e prevenire l’evolversi di deformazioni permanenti e invalidanti. Se l’intervento iniziale è tempestivo, nelle prime fasi, il processo di degenerazione ossea ha ottime probabilità di essere fermato.
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