Terapia cellulare: come tratteremo il diabete tipo 1

Terapia cellulare: come tratteremo il diabete tipo 1

A cura di Maria Rita Montebelli* e Andrea Sermonti**

Curarsi con la terapia cellulare non è più un’utopia relegata a un lontano futuro, ma una soluzione che sta acquisendo concretezza di giorno in giorno: le terapie cellulari stanno facendo passi da gigante in vari campi e sono quasi pronte per il prime time della pratica clinica.
Il congresso nazionale della Società Italiana di Medicina Interna (SIMI) ha dunque deciso di dedicare all’argomento una sessione, per tracciare lo stato dell’arte.
Molto avanzati gli studi nel campo del diabete tipo 1. Ne ha parlato al Congresso Nazionale della SIMI il professor Lorenzo Piemonti, direttore del DRI, Diabetes Research Institute, Ospedale San Raffaele, Milano, intervistato dalla Dott.ssa Maria Rita Montebelli, medico e una delle più autorevoli firme tra i giornalisti scientifici.

“Quest’anno – commenta il prof. Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Medicina Interna – la SIMI ha voluto introdurre tra i temi del proprio Congresso annuale un argomento di ricerca di frontiera ovvero quello delle terapie cellulari nel campo delle patologie cardio-metaboliche. Si tratta di studi sperimentali che non hanno attualmente un’applicazione clinica ma che sono destinati a diventare una terapia del prossimo futuro. Quello che ci rende particolarmente contenti è il fatto che alcuni dei migliori Centri di Ricerca delle terapie cellulari si trovano in Italia e gli studiosi invitati al 123° Congresso della SIMI faranno il punto sull’attuale stato di avanzamento delle ricerche e sulle prospettive di applicazione clinica nel prossimo futuro”.

A che punto è la terapia cellulare per il diabete tipo 1

Il campo delle terapie cellulari per il trattamento del diabete di tipo 1 è in rapida evoluzione e una nuova entusiasmante era è già iniziata. La speranza è di poter disporre a breve di fonti illimitate di cellule produttrici di insulina, alternative a quelle dei donatori, utilizzate da tempo per i trapianti.

“Le migliori candidate per la produzione di cellule beta – ricorda il Professor Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute (DRI) del San Raffaele di Milano e uno dei maggior esperti mondiali sull’argomento – sono al momento le cellule staminali umane pluripotenti, che hanno un potenziale illimitato di divisione e differenziazione. Diversi laboratori hanno sviluppato protocolli per la differenziazione delle cellule pluripotenti in cellule beta e un grande sforzo negli ultimi anni si è concentrato sullo sviluppo di prodotti cellulari con un buon profilo di sicurezza (capacità di non generare tumori) che ne consenta l’applicazione clinica”.

Verso le prime sperimentazioni nell’uomo

Attualmente sono registrati 6 studi clinici che utilizzano cellule staminali pluripotenti umane per la terapia del diabete di tipo 1 e i primi pazienti nei quali sono state impiantate hanno presentato un evidente beneficio clinico. “In particolare – prosegue il professor Piemonti – proprio quest’anno è stata ottenuta per la prima volta l’insulino-indipendenza nell’uomo. Nel mese di ottobre ‘22 è prevista la sottomissione alle agenzie regolatorie dei Paesi europei (Italia compresa) per le prime sperimentazioni nell’uomo.

Inoltre, sono in fase di valutazione diverse strategie per ridurre o evitare il rigetto immunitario tra le quali:

  • la generazione di cellule staminali pluripotenti universalmente compatibili, perché rese ‘invisibili’ al sistema immunitario (silenziando o eliminando geni HLA o esprimendo geni che codificano per molecole immunosoppressive).

Un’altra strategia di affiancamento al trapianto di staminali, riguarda:

  • lo sviluppo di regimi immunosoppressivi blandi (sufficienti però a evitare il rigetto);
  • il miglioramento dell’incapsulamento/contenimento del prodotto cellulare;
  • la creazione di un’aplobanca di linee GMP (Good Manufacturing Practises) di cellule staminali”.

Certo, una cura definitiva per il diabete ha ancora bisogno di tempo, ma molte novità entusiasmanti ci stanno mostrando un chiaro percorso da seguire.

Oltre alle cellule beta da donatore, oggi si dispone di diverse fonti alternative

Le tre grandi categorie sono:

  1. cellule staminali pluripotenti;
  2. cellule provenienti da maiali transgeniche e
  3. la cosiddetta ‘complementazione della blastocisti’, in pratica la creazione di un animale ‘chimera’ nel quale viene fatto sviluppare un organo umano, da utilizzare in seguito per il trapianto.

“Le cellule produttrici di insulina del maiale – commenta il prof. Piemonti – sono molto interessanti perché questa insulina differisce dall’insulina umana per un solo aminoacido; in passato peraltro veniva usata in terapia, prima che arrivasse quella umana”. Naturalmente le reazioni di rigetto contro questi tessuti di origine animale sono un problema e non facili da tenere sotto controllo; per questo sono allo studio attività di modificazione genetica degli animali per poter ottenere cellule ‘invisibili’ al nostro sistema immunitario. “Le cellule staminali pluripotenti –prosegue Piemonti – sono al momento le migliori per la terapia del diabete. Due le fonti principali ideali per caratteristiche di qualità e quantità:

  1. le cellule derivanti dall’embrione;
  2. le cellule ‘riprogrammate’, frutto di una grande scoperta che ha valso al giapponese Yamanaka il premio Nobel”.

La caratteristica specifica delle cellule embrionali, cioè quella di poter dar vita a tutti i tessuti, è infatti una funzione che può essere acquisita da qualsiasi cellula del nostro corpo, a patto che venga ‘attivata’. “In questo modo – spiega il professor Piemonti – una cellula della pelle può acquisire le stesse caratteristiche di una cellula pluripotente di origine embrionale (si chiamano cellule staminali pluripotenti ‘indotte’); da queste è possibile poi ottenere cellule produttrici di insulina, come è stato fatto in alcuni studi clinici. La prossima frontiera sarà di far ‘ringiovanire’ parte di queste cellule ‘in vivo’ (cioè direttamente nell’organismo) per ricreare direttamente all’interno del corpo l’organo insufficiente, ad esempio il pancreas (questo reprogramming in vivo è stato fatto nell’animale, ma non ancora nell’uomo). Bisogna essere prudenti naturalmente perché c’è sempre il rischio che, giocando con l’identità delle cellule, possa svilupparsi un tumore. Questo però è un problema del reprogramming in vivo, ma non del trapianto di staminali pluripotenti perché prima del trapianto ne possiamo controllare la stabilità genetica”.

L’ultima fonte di cellule, al momento quella più remota come possibilità è la ‘complementazione della blastocisti’, una tecnica che permette di ‘costruire’ in laboratorio un animale dotato di organi costruiti con cellule umane, attraverso il trasferimento di cellule staminali pluripotenti, durante il processo di sviluppo embrionale (embriogenesi), direttamente nella blastocisti (embrione allo stadio di sviluppo di 5-6 giorni). “Sarebbero dei veri e propri organi ‘on demand’, delle chimere, per ora portate solo fino a un certo grado di sviluppo, senza far sviluppare del tutto l’animale. Al momento si tratta di una tecnica molto inefficiente e che pone grandi problemi etici. La ricerca in questo campo per il momento è tutta concentrata in un paio di laboratori nel mondo, negli Usa e in Giappone”.

I sette studi attualmente in corso

Tornando dal mondo delle possibilità future alla realtà attuale, al momento sono registrati nel mondo 6 studi clinici sulle staminali pluripotenti umane (USA e Canada) e un solo studio in Europa, registrato da un consorzio del quale fanno parte Francia, Belgio, Olanda, Svizzera e Italia. Nel 2018 è stato impiantato con cellule progenitrici ottenute da staminali pluripotenti il primo paziente in Europa (nel 2014 negli Usa). “Finora – ricorda il professor Piemonti – il risultato clinico più importante è stato ottenuto in un paziente americano, nel quale è stato dimostrato che le cellule non si trasformano (in tumore), che a distanza di 1-2 anni dall’impianto sono ancora vive, che una volta impiantate maturano e producono insulina.

Il tutto ha portato ad evidenti benefici clinici (riduzione del fabbisogno insulinico, aumento del tempo della glicemia in range e miglioramento dell’emoglobina glicata).

I primi tentativi sono stati fatti con cellule progenitrici che maturavano lentamente in vivo e che venivano impiantate sottocute all’interno di un device grande come una carta di credito. Dallo scorso anno è partito un secondo prodotto cellulare derivato da staminali pluripotenti che viene infuso endovena nella vena porta del fegato (come si fa nel trapianto di isole da donatore) e non più impiantato sottocute. Per ora con questo protocollo di fase 1, iniziato lo scorso anno, sono stati trattati tre pazienti; il primo è diventato insulino-indipendente, mentre gli altri due hanno ridotto il fabbisogno insulinico”. Questo trial partirà a breve anche in Europa.

Saranno sei i gruppi impegnati nel progetto, per l’Italia il San Raffaele. “Prevediamo di reclutare il primo paziente entro la metà dell’anno prossimo; è destinato a pazienti con diabete non controllato (che invece di fare il trapianto di isole, farebbero il trapianto di queste cellule), ma devono fare immunosoppressione. Tuttavia, entro la fine di quest’anno, potremmo avere la possibilità di sottomettere un altro protocollo che prevede l’impianto di queste cellule (rese ‘invisibili’ al sistema immunitario), senza necessità dunque di immunosoppressione”.

Abbiamo dunque ‘imparato’ a produrre cellule produttrici di insulina in laboratorio e quindi in futuro potremmo non aver più bisogno di ricorrere ai donatori d’organo; da questi studi preliminari inoltre sono state ottenute le prove di principio che queste cellule sono in grado di funzionare al punto da rendere il soggetto insulino-indipendente.

“La scommessa di oggi – conclude il professor Piemonti – è di poterle utilizzare senza gli immunosoppressori. A questo riguardo si stanno esplorando alcune strade:

  • mettere le cellule all’interno di un ‘contenitore’ che le isoli e le protegga dall’attacco del sistema immunitario;
  • modificarle geneticamente, rendendole invisibili al sistema immunitario (silenziando alcuni geni e inserendone altri che le rendano invisibili al sistema immunitario);
  • creare linee di cellule staminali pluripotenti da soggetti che siano come HLA identici (è come trovare nel mondo un donatore completamente compatibile) e creare una ‘banca’ di queste linee per le principali categorie di HLA”. Quest’ultimo punto è per ora solo un wishful thinking, un pensiero illusorio.

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* La Dott.ssa Maria Rita Montebelli è medico specialista in endocrinologia al Dipartimento di Scienze gastroenterologiche, endocrino-metaboliche e nefro-urologiche del Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, Roma.
Si occupa da molti anni di divulgazione medico-scientifica, come giornalista, moderatore di incontri scientifici, addetto stampa. Scrive per Quotidiano Sanità e per il portale Salute di Repubblica.

** Il Dr. Andrea Sermonti è giornalista, laureato in Giurisprudenza all’Università La Sapienza di Roma, attualmente Direttore di StudioNews, Bruxelles, Società di servizi stampa, specializzata nell’offerta di service giornalistici per i quotidiani e on line nonché nell’organizzazione di conferenze ed eventi media.

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